Avrai ragione ogni volta che mi sgriderai se son stata un po’ troppo leggera.

“A mia figlia.
Quando arriverà quel giorno che non sarò più al tuo fianco, ti auguro di trovare lo stesso amore che hai ricevuto da me”

Ho letto questa frase milioni di volte così come sono state milioni le domande che si sono ripetute negli ultimi due anni. “Ti sei mai sentita meno figlia dalla morte di tuo padre?  Meno amata, meno “tutto”?” Difficile rispondere.

Non so se esattamente questo sia il luogo giusto per parlarne; sicuramente ne è il momento.

Primo anno di università. Giurisprudenza. Nuovo capitolo della mia vita, nuova città. Contro il mio entusiasmo iniziale c’era la paura di mio padre…Per cosa? E’ sempre stato apprensivo ed intimidito dalle mie aspirazioni, non perché troppo grandi ma per l’elevato (e ancora lontano) rischio che avrebbero potuto comportare. Del resto però, proprio lui mi ha sempre insegnato che “mai sogni piccoli furono realizzati“, quindi perché non puntare in alto? Era all’incirca febbraio quando scoprimmo della sua malattia , qualcosa di apparentemente risolvibile con le dovute terapie. Era l’inizio della fine.

Non sono mai stata molto informata sulle sue condizioni, cercavano di rassicurarmi, di non farmi pesare il fatto di essere spesso lontana per gli studi, di essere la “più piccola”, la “più legata” a papà…eppure a me pesava tutto e molto. Riuscimmo a festeggiare il suo compleanno ed anche il mio qualche mese dopo, l’ultimo insieme, il tutto in un’atmosfera surreale.

Non accettavo più di star via da casa, non me ne importava nulla della sessione estiva e decisi così di tornare  per poter essere più presente, passando del tempo insieme a mio padre; per entrambi era diventato fondamentale leggere, cantare, anche studiare (chissà se qualche articolo di codice almeno lui lo avrà imparato), per entrambi ma soprattutto per me. Volevo salvarlo a tutti i costi, volevo tenerlo ancora e per sempre con me, ma si sa, spesso la vita presenta sul nostro tavolo da gioco carte inaspettate che siamo costretti ad utilizzare. Di lì a poco, nei primi giorni di luglio, la situazione precipitò.

Venne ricoverato in ospedale dove il tempo sembrava non passare mai, dove attraversare il corridoio senza piangere era sempre più difficile, dove c’erano persone che avevano una storia simile da raccontare ma che il tuo corpo non voleva saperne di ascoltare.

“Metastasi” è l’unica e sola parola che non dimenticherò mai. Tutto in quel preciso istante si fermò. Volevo solo urlare ed è quello che feci; credo di non averlo mai fatto prima. Urlai con tutta la forza che avevo mentre le lacrime rigavano il mio volto e quello di mia madre. Entrai poco dopo nella camera di mio padre che mi guardò senza essere ricambiato, non sarei mai riuscita a sostenere quello sguardo senza piangere nuovamente. Arrivò quella che sarebbe stata l’ultima notte lì, decisi di rimanere io al suo capezzale così come all’incirca 12 ore dopo decisi di portarlo via perché non meritava di morire in un letto di ospedale.

Perché la vita è tutta una questione di scelte, prese e non, e quella volta toccò a me.

La prima notte a casa fu la più difficile. Mio padre, ormai in coma, continuava a piangere dall’occhio destro che cercavo di asciugare in contemporanea ai miei di occhi, che non hanno mai smesso di farlo. Tenevo la sua mano fredda tra le mie mentre il resto aveva smesso di esistere; neppure il sole rovente di luglio riusciva a sciogliere quel gelo. Qualche giorno dopo morì ed io con lui.

Mi son sempre chiesta se fosse giusto vivere quel che rimaneva, se svegliarsi ogni mattina prima o poi avrebbe riacquistato un misero senso, se in qualche modo anche solo dormire al suo posto o indossare i suoi maglioni avrebbe addolcito una verità troppo amara… Poi ho capito che spesso ci vengono date due opportunità; possiamo continuare a vivere all’ombra delle nostre paure scavando sempre più una fossa dalla quale difficilmente usciremo oppure rialzarci, ricucire le ferite che come fardelli ci portiamo sulla pelle e nel cuore e sorridere. Sì, sorridere.

Non è però tutto oro ciò che luccica, così come non sono un sorriso, una foto, un momento di sana spensieratezza a determinare qualcuno. In una società che ci educa sempre più a puntare il dito perché implica meno fatica, meno sforzo rispetto a mettersi lì e comprendere gli altri, vi dico di imparare a discernere, ad avere una sensibilità raffinata e soprattutto a non giudicare,a non farlo mai.

Se mi sento meno figlia? Assolutamente no, ma come scrivevo qualche giorno fa, questo non ve lo può trasmettere chiunque. Perché di tutti gli uomini che vi sono al mondo, non tutti possono essere padri, padri veri. E se ad oggi è sempre più faticoso ricominciare, guardare negli occhi mia madre e mia sorella e prenderle per mano, allo stesso tempo sono grata per esser quella che sono. Il dolore è sempre lì, seduto poco distante senza mai andar via, ho solo imparato a non lasciarmi sopraffare -quando possibile-, a convivere nel migliore dei modi.

“Nulla accade mai per caso” ed è proprio vero! Sappiate prendere da ogni situazione tutto il buono che c’è, solo così potrete vincere e VIVERE davvero. E’ tutto ciò che ho imparato.